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Occhi spappolati

Un viaggio nelle storie di ieri e di oggi per provare a immaginare il nostro futuro. "Shock in My Town", una rubrica di Fumettologica a cura di Davide Scagni. Il martedì, ogni 15 giorni.

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gli occhi del gatto jodorowsky moebius
Particolare da “Gli occhi del gatto” di Alejandro Jodorowsky e Moebius

La scena più memorabile di Le chien andalou di Luis Buñuel, film muto del 1929 di impronta surrealista realizzato in collaborazione con Salvador Dalí, è sicuramente quella dell’occhio tagliato da un rasoio. Una roba che – per quanto risalga ormai a un secolo fa – rimane nella testa in modo indelebile, e la cui portata visiva è talmente forte da essere citata spesso e volentieri: sarà capitato a tutti di trovarla almeno una volta nella vita, pur senza aver visto il cortometraggio per intero (tra l’altro, facilmente disponibile in rete, per gli interessati). 

Si trova nei minuti iniziali del film: un uomo con un rasoio in mano osserva dal suo balcone una nuvola sottile che, mossa dal vento, si sovrappone alla luna piena, tagliandola in due. E questa immagine – in uno stacco di montaggio che ricorda il trucco con cui Stanley Kubrick in 2001: Odissea nello spazio trasforma il bastone lanciato in aria (la prima arma dell’Uomo) in un’astronave vagante nello spazio – genera appunto nell’uomo un’altra immagine molto forte: nella sua immaginazione, che il cinema tratta come vera, vediamo il rasoio in mano all’uomo trapassare l’occhio di una donna. Per metonimia, la nuvola diventa lama, la luna diventa occhio che esplode di fronte allo spettatore. 

Nel discorso artistico di Buñuel e Dalì, che dialoga col surrealismo e vuole superarlo proprio attraverso il cinema, realtà e sogno si scontrano e si compenetrano. Il tempo si fa oggetto plastico nelle mani degli autori. Lo sguardo stesso è qualcosa di inaffidabile, che deve essere continuamente messo in discussione, come dichiarato esplicitamente dalla nuvola-lametta. 

La realtà virtuale, l’immagine che scavalca la realtà, era già nelle riflessioni dei cineasti più illuminati di inizio del Novecento prima che diventasse, un secolo più tardi, un problema di tutti i giorni. In Le Voyage dans la lune di Georges Méliès (1902), il razzo dei viaggiatori spaziali non a caso si infila proprio nell’occhio della Luna. Il cinema riflette da sempre sull’effetto delle immagini nella percezione della realtà. Quando ci interroghiamo sulle conseguenze sociali (e contiamo le visualizzazioni) delle foto fake di Papa Francesco vestito da trapper o di Donald Trump arrestato dalla Polizia (prima per finta, poi per davvero), il nostro occhio si spappola come in Buñuel. 

Non sappiamo più vedere, quindi non sappiamo agire: il mondo fuori dalla nostra osservazione diretta diventa una eterna fiction, verso cui possiamo al limite esprimere le nostre preferenze di spettatori, ma su cui non abbiamo alcun potere. L’intelligenza artificiale ha svelato un trucco che è in atto da tempo ma che non è mai stato così facile da realizzare. Da molto tempo il nostro occhio è spappolato, continuamente smentito da immagini che non sappiamo più come interpretare. Nella proliferazione delle immagini fake dichiariamo la nostra cecità. 

Nel 1978, Les Humanoïdes Associés pubblicarono un breve racconto scritto da Alejandro Jodorowsky e disegnato da Moebius: Gli occhi del gatto è uno strano fumetto, fatto di grandi splash page e brevi testi di accompagnamento, ambientato in uno scenario post-apocalittico, post-umano, post-tutto. Chiuso in una torre altissima, affacciato a una grande finestra che dà su una città deserta lambita da un sottile raggio di sole (o di luna?), un ragazzo ordina alla sua aquila addomesticata Meduz di rubare per lui gli occhi di un gatto nero. 

Presi dunque gli occhi dalle zampe della sua aquila, dopo uno scontro cruento con il gatto, il ragazzo passeggia per la torre con gli occhi infilati nelle sue orbite vuote: «È meraviglioso giocare a vedere» dice. Ma, presto stanco dell’illusione, conclude: «La prossima volta, mi porterai gli occhi di un bambino». Come quel ragazzo, i nostri occhi sono sostituti da mille apparecchi mediali che, come Meduz, ci portano gli sguardi di qualcun altro. Noi giochiamo a vedere la realtà, ma restiamo sempre ciechi nella nostra torre di illusioni. 

L’unica verità che possiamo ancora riconoscere sta in noi stessi, non più come osservatori, ma come oggetti dello sguardo altrui. In The Neon Demon di Nicolas Winding Refn (2016) la bella, innocente aspirante modella Jesse interpretata da Elle Fanning vive nella consapevolezza del suo letale talento: farsi guardare. Nel mondo moderno, ben sintetizzato dalla lussureggiante vacuità del mondo della moda, Jesse non vuole essere come gli altri, sono gli altri che vogliono essere Jesse. Jesse è come il gatto moebiusiano, illuminato dalla luce della luna. Anzi è quella stessa luce che rischiara il buio della finzione: «Pensavo che la Luna somigliasse a un grande occhio rotondo, guardavo in alto e dicevo: Mi vedi?». 

Nell’occhio della Luna si riflette la luce del suo sguardo ancora innocente. Non a caso le sue invidiose colleghe – meno autentiche e luminose di lei – vogliono ucciderla, vogliono mangiarla e rubarle gli occhi. Ma non si può a lungo giocare a vedere con gli occhi di un altro: il nostro occhio spappolato ha perso da tempo la sua innocenza.

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