
Se c’è un pregiudizio che è ben piantato nella mente dei lettori del nostro Paese è che la fantascienza italiana non va. Non è buona. Non funziona. È un pregiudizio e, permettetemi di aggiungere, anche molto sbagliato. Ma, come per tutte le cose, bisogna guardare meglio, perché c’è sempre un fondo di verità che si nasconde dietro le posizioni più radicali e con meno giustificazioni.
In particolare, il pregiudizio sulla fantascienza italiana a mio avviso nasce da due cause molto diverse: una molto “nostrana” e l’altra invece più internazionale (anche se in realtà non ce ne accorgiamo poi più di tanto). Andiamo con ordine. E rendiamoci conto di una cosa. Una volta, nel mondo prima di Internet, dei social e delle infinite nicchie che giustificano anche l’autopubblicazione, esistevano cancelli culturali enormi. Uno di questi erano i curatori di collana. Il ruolo più simile a quello dell’Ufficio Immigrazione per regolare la circolazione delle idee che si possa immaginare.
Amazon è stata una delle prima aziende al mondo, assieme probabilmente a eBay, a smantellare questa funzione cruciale in un certo modello storico dell’industria culturale per l’editoria. E l’ha sostituita con l’idea della “economia della coda lunga”. Che si basa, poi, su un fatto molto semplice: poter vendere ovunque dal web senza bisogno di un negozio fisico e quindi avendo costi praticamente azzerati per lo stoccaggio dei libri.
Questo fattore è cruciale, perché le librerie fisiche sono piccole e devono pagarsi l’affitto. Amazon quindi ha un costo pari a zero rispetto a una libreria che, come ogni negozio, ha poco spazio e costi vivi (l’affitto, il riscaldamento, la luce) misurabili e spalmabili sull’estensione degli scaffali dei libri. Libri che di conseguenza devono rendere e quindi “muoversi”, altrimenti sono un costo non ammortizzato, una perdita secca.
La capacità di far soldi con i libri al tempo di Internet, che è stata forse la prima grande intuizione di Jeff Bezos, ha creato l’idea della coda lunga (il termine venne coniato nel 2010 dall’allora direttore del magazine americano Wired) e della conseguente idea dei “best seller di nicchia”. Libri che nei circuiti editoriali tradizionali non sarebbero mai arrivati al loro (relativamente) piccolo pubblico ma che grazie alla rete e alla disintermediazione avevano all’improvviso la capacità di essere venduti. E avere un po’ di successo.
Questa nuova economia del libro è stata forse la più grande spinta per il self publishing e per la nascita di piccoli editori online. Siti come Fantascienza dot com e la casa editrice collegata Delos esistono perché ora c’è un modello di distribuzione alternativo, potente ed economico. I loro zii e i loro nonni, pubblicazioni come Galassia, Robot o le collane della casa editrice Libra, non sono mai riuscite ad attecchire non a causa della qualità dei prodotti ma dei costi di distribuzione rispetto al loro principale concorrente: Urania di Mondadori.
E qui veniamo più esplicitamente alla prima ragione per cui la fantascienza italiana è considerata malamente dai suoi potenziali lettori parlanti italiano: le scelte editoriali di Urania. Sin dal tempo della sua nascita la testata per l’edicola di Mondadori ha deciso che alcune cose dovevano andare in un modo e altre in un altro. Ha guardato con decisione (anche se non esclusivamente) al mercato americano della fantascienza su rivista, desiderosa (erano i primi anni Cinquanta) di proporre un’immagine più moderna e tecnologica della narrativa di “science fiction”. Mettendo in soffitta i classici che dalla fine dell’Ottocento accompagnavano soprattutto gli adolescenti maschi: i romanzi di avventura, da Salgari a Verne, passando per tutto quello che c’è nel mezzo. E c’era tanto nel mezzo, anche se più votato all’avventura e all’escapismo che non all’aspetto scientifico.
La nascita della science fiction da noi fu battezzata con un nome fuorviante (“scienza fantastica” è un concetto diverso da “narrazione scientifica”), ma disegnava comunque una omogeneità di gusto che Giorgio Monicelli prima e la coppia Fruttero e Lucentini poi portarono avanti a lungo. C’era materiale non americano – e anche molto più di quanto non sembri se si vanno a guardare i primi 300 numeri di Urania – ma si trattava di una goccia nel mare. Una goccia per di romanzi europei e italiani per di più pubblicati sotto pseudonimo, che non “emergeva”.
La vera ragione dietro al motivo per cui Urania nacque così filoamericana in realtà era prettamente industriale: Mondadori aveva un fortissimo rapporto con l’editoria nordamericana perché traduceva per la prima volta in Italia un sacco di autori di quel Paese. L’idea di Monicelli (fratello del regista) di fare una rivista italiana per le edicole era stata supportata da un contratto di fornitura di materiali editoriali fondamentale: la casa editrice aveva stretto un accordo con la rivista Galaxy Science Fiction (fondata nel 1950 da H.L. Gould e famosa per aver portato un notevole vento di novità in un mercato editoriale già decisamente vivace e innovativo) e si era così assicurata la “base” di storie da pubblicare durante l’anno.
Attenzione. Come abbiamo detto Urania aveva sempre pubblicato anche una parte di autori italiani sotto pseudonimo, ma negli anni Ottanta arrivò anche a creare un premio (grazie al compianto Gianni Montanari) che tutt’oggi è un punto di riferimento per il settore nel nostro Paese. In ogni caso, anche se Urania in qualche modo ha sempre pubblicato autori italiani e anche se ci sono state altre riviste e case editrici che hanno pubblicato autori nostrani, l’idea è che la fantascienza “buona” fosse anglosassone. Prevalentemente nordamericana, ma anche britannica.
Per quasi settant’anni, i curatori hanno svolto un ruolo fondamentale in questo senso, e l’idea – anche grazie allo strapotere del cinema di Hollywood – è decisamente passata nell’immaginario collettivo. Aiuta anche il fatto che il mercato editoriale italiano è da sempre esterofilo (pubblichiamo più libri tradotti che non in italiano) e che nel settore della fantascienza le altre case editrici nostrane che pubblicavano autori di fantascienza italiani pian piano hanno chiuso o sono comunque state sostituite da altri modelli nel mercato. Oggi gli autori italiani mainstream di fantascienza si contano sulle dita di una mano.
L’altra ragione per cui secondo me la fantascienza italiana non è rappresentata come potrebbe e come dovrebbe sta nella qualità dei nostri autori e nella cura delle edizioni. Spesso roba di bassa qualità, con autori forse capaci ma che necessiterebbero di una cura e di un editing molto più forte. Ed edizioni molto “economiche” sia per qualità dei materiali che per quanto riguarda il montaggio delle pagine e la cura ad esempio delle copertine, che nella fantasienza sono particolarmente importanti. “Brutte copertine” sembra essere il motto di quasi tutte le nostre case editrici, soprattutto da quando i budget sono stati azzerati e si ricorre a orrende foto di stock in bianco e nero (perché vecchie e quindi libere da diritti).
Ma, lasciatemelo dire brevemente e senza entrare troppo nel dettaglio, queste sono conseguenze e non causa del problema, che invece tocca fondamentalmente tutto il piccolo settore della fantascienza italiana. E la ragione è l’eccessivo provincialismo e partigianeria. Ci sono poche fiere, pochi circoli, sostanzialmente poche “parrocchie”, e questi svolgono una funzione paragonabile a quella che avevano i curatori delle grandi collane: passano solo quelli che fanno parte del giro. Questa attitudine, che sicuramente è spiegabile con la passione che accomuna alcune persone, ha però il deleterio effetto che, se sei fuori “dal giro”, non vai da nessuna parte.
Il settore della fantascienza, che in Italia non ha di certo grandi numeri, è una specie di campionato delle conventicole. Il “gusto” fortissimo di pochissime persone influenza tutto e, se non si fa parte di quel giro non sfondi. Intendiamoci: nell’industria culturale, quel settore molto particolare dove si incrociano aspetti d’impresa con gusto e cultura, è sempre stato così. Fumetto, poesia, letteratura. A salvare capra e cavoli però è l’ampiezza del mercato e la libera concorrenza. Tante “parrocchie” diverse (consentitemi di chiamarle così) e la possibilità di crearne una ex novo se si propone qualcosa di buono hanno reso più che accettabile questo tipo di dinamica.
Invece, grazie anche a questa politica dei “vecchi” curatori (ma anche i “nuovi” non scherzano) che per decenni ha castrato sia il mercato degli autori di fantascienza nostrana che il gusto dei lettori, il settore italiano è particolarmente provinciale e chiuso in se stesso, in un paio di parrocchie (forse tre) e nella sensazione che gli autori siano tutti amici tra di loro, altrimenti possono fare solo self publishing su Amazon.
Un self publishing che non solo si porta dietro tutte le ingenuità e ruvidità di autori non coltivati, ma che per assonanza con il nome dell’azienda fondata da Jeff Bezos, porta con sé anche un altro effetto: quello dell’albero che cade nel mezzo della giungla amazzonica. Se nessuno è là a per vederlo, chi se ne accorge che esiste? Nessuno, mentre “i soliti noti”, tutti amici tra loro, vanno avanti senza quella concorrenza e competizione che potrebbe rendere davvero eccellente il loro lavoro.
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Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. La sua newsletter si intitola: Mostly Weekly.
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