“Pluto” di Netflix cattura l’essenza del manga di Urasawa

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Di tutte le opere di Naoki Urasawa, Pluto è la più peculiare. Non tanto per la storia, quanto per il fatto di essere un remake di Astro Boy, la celebre serie di Osamu Tezuka, il “dio dei manga”. In particolare, quando la iniziò nel 2003, Urasawa scelse il suo arco narrativo preferito, Il più grande robot del mondo, la storia del 1964 con cui la serie aveva toccato il picco di popolarità. In pratica, il “dio dei manga” rifatto da quello che è stato definito «il suo degno erede».

Uscita tra il 2003 e il 2009 e scritta assieme a Takashi Nagasaki, Pluto è un remake a maglie larghe perché, pur utilizzando la saga di Astro Boy come base di partenza, si espande in territori diversi, adulti, sofisticati, che mischiano Blade Runner e Isaac Asimov: tutto ottimo materiale per un adattamento cinematografico o televisivo.

E infatti, come già capitato per altre opere del mangaka, Pluto è diventata una miniserie anime di Netflix che rispetta fedelmente la trama di partenza. In un futuro in cui i robot vivono accanto alle persone subendo non poche discriminazioni, Mont Blanc, uno degli esseri artificiali più gentili e più forti del mondo, viene fatto a pezzi senza pietà. Il detective incaricato delle indagini è Gesicht, un robot dall’aspetto umano costruito con una lega indistruttibile. Intanto, sullo sfondo incombe un conflitto mondiale che, all’epoca del manga, era un rimando alla guerra in Iraq in cui si erano imbarcati gli Stati Uniti.

Diretta da Toshio Kawaguchi (un animatore di lungo corso che ha preso parte a progetti storici come Akira e Neon Genesis Evangelion) e animata da M2, il nuovo studio di Masao Maruyama (già fondatore di MAPPA e Madhouse), la miniserie è composta da otto episodi di circa un’ora, uno per ogni tankobon della serie. Il ritmo e il flusso della storia sono quindi rispettati (anche troppo, dato che il cast corale pretende attenzioni e in un prodotto audiovisivo è più difficile saltare da una narrazione all’altra), ma soprattutto l’anime cattura molto bene il modo di disegnare di Urasawa, meno cartoonesco e più realistico di quello che era il mondo visivo di Tezuka, ma altrettanto carismatico, mettendo su schermo tutti i suoi vezzi: i nasi (quasi mai a punti ma rotondi e grandi), i capelli, le rughe, una linea spessa e soddisfacente nel vederla stagliarsi contro i fondali.

Pluto è un thriller d’azione ma anche tanto di parola, ed è nelle conversazioni che stanno i momenti migliori della serie: dall’incontro con Brau 1589, una sorta di Hannibal Lecter robotico che aiuta il protagonista nelle indagini, a quello tra Gesicht e la moglie robot di una delle prime vittime – così efficace nel farci capire che questi personaggi sono macchine con emozioni che loro stessi non sanno bene come processare e che il confine tra umano e artificiale è sempre più sfumato, costringendo gli umani a mettere in discussione il trattamento che riservano ai robot e, in generale, al prossimo. Nulla di avanguardistico, eh, ma realizzato con bravura.

Pluto è insomma una serie che si fa forza dell’ottima fonte di partenza e riesce nell’impresa di non stravolgerla, a costo di soffocare la personalità dei realizzatori, confezionandoci attorno un prodotto di grande professionalità.

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