Cancel culture e polemiche in “Stacy”, il nuovo fumetto di Gipi

gipi stacy coconino press graphic novel fumetto

Sono vent’anni che Gipi è un nome. Cioè, sono un po’ di più, ma vent’anni fa usciva Esterno notte, il suo primo libro a fumetti e quello che lo fece conoscere al pubblico, prima piccolo poi sempre più grande, di lettori. Ora, dopo che nel mezzo c’è stato di tutto e di questo tutto forse la cosa più rilevante è il ruolo che Gipi ha avuto nel cambiamento di percezione del fumetto in Italia (è un modo molto arzigogolato per dire una cosa banale, persino un po’ brutale: Gipi è un autore importante), esce il suo nuovo fumetto, Stacy.

Il protagonista di Stacy è Gianni, uno scrittore e sceneggiatore di serie televisive di successo. La sua carriera è all’apice quando, nel corso di un’intervista all’apparenza innocua, pronuncia tre parole, relative a un sogno che aveva fatto in cui immaginava di seviziare una ragazza («Stacy è burrosa»), che diventano oggetto di discussioni sui social network, creando polemiche e costringendo Gianni a mettersi in discussione, mentre l’ossessione per questa Stacy si fa sempre più dilagante.

Come già era successo con altre opere dell’autore, realtà e finzione si mischiano, ma questa volta lo spunto non è celebrativo, non ricorda un genitore (S., Momenti straordinari con applausi finti), un periodo della propria giovinezza (Esterno notte, Questa è la stanza), non ha fini catartici (LMDM, Unastoria) e non è nemmeno di pura invenzione (Appunti per una storia di guerra, La terra dei figli, Barbarone). La premessa è di segno diverso, perché parte dalla polemica che ha investito Gipi nel 2021 a seguito della pubblicazione di un fumetto su Instagram.

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Ovvio vederci le tante accuse bipartisan che gli sono piovute addosso, ma anche echi di uscite come quella di Labadessa o di tanti altri casi simili che hanno ispirato un sottogenere di storie a tema cancel culture, un filone su come si affronta un evento simile a un lutto, in cui però c’è un substrato di colpa nel ritenersi, da parte della persona a cui succede, vittima, e che può arrivare a sconvolgerti la vita in maniera definitiva – come succede nel film Tár, come non succede in Stacy.

Se Esterno notte, che usciva vent’anni fa, era una prova di vitalità e speranza di un quasi esordiente, e se Unastoria, pubblicato dieci anni fa,manifestava la presa di coscienza della caducità della carne da parte di un autore maturo, in Stacy c’è un fumettista più che consacrato che questa consacrazione un po’ se la vede sottratta, un po’ la contesta, un po’ la abiura.

«Il fatto è che non credevo che lo sguardo degli altri fosse, per me, tanto importante» dice/fa dire Gipi a un certo punto. I due piani, quelli del dire e non dire, dell’intendere qualcosa e smarcarsi, dell’ironizzare fingendo serietà, non fanno che confondersi nel corso della storia, per volere scientifico dell’autore, che dà il proprio nome al protagonista. E che non a caso conclude la storia con un finale che sembra a tarallucci e vino e poi invece no.

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Gipi rilancia su ciò che gli è accaduto, distaccato, sardonico, quasi antipatico, che se la prende/fa finta di prendersela un po’ con tutti, ridicolizzando i tentativi di inclusività delle grandi corporazioni o l’esasperante ricerca di profondità e di un messaggio nelle produzioni di consumo più becere. In Stacy c’è tanta televisione, Gipi fa i nomi di persone ed entità a cui sono indirizzati i suoi discorsi, alcuni li censura, divaga su come la visione di Temptation Island – con un cast di uomini e donne di bell’aspetto che si tradiscono fra loro – lo faccia sentire irrimediabilmente vecchio eppure giovane, partecipe delle vicende televisive. 

Quello della tv sembra un mondo che ti strappa l’anima («non esiste l’anima» dice Gianni; «allora cosa hai perso?» gli chiede la sua coscienza dopo aver rivisto il momento in cui lo sceneggiatore si era messo a raccontare del padre appena scomparso durante una diretta tv) e in cui quasi tutti indossano gli occhiali da sole, come a nascondere le loro reali intenzioni.

C’è, si chiede l’autore, davvero bisogno di indire riunioni per stabilire quale attore dovrà doppiare un pappagallo, protagonista di una serie tv, per non urtare la sensibilità dell’animale? È così necessario appiccicare grandi temi a ogni storia che raccontiamo, fosse anche un canovaccio pulp coi vampiri, solo per sentirsi legittimati nel proprio mestiere? E non è che queste spinte, partite da esigenze concrete, stiano generando dinamiche che come unico scopo hanno la consolazione personale e meno, come dovrebbe essere, i reali bisogni degli altri?

Stacy è un libro insistente, ossessivo, ci sono elementi che ritornano con frequenza martellante: fra tutti, il nome “Stacy”, che abbonda nei dialoghi ed è anche stampato nei tanti frontespizi che scandiscono la storia, ma anche la rigidità della pagina. In questo senso, Stacy è un libro strano, dalla forma inusuale per Gipi, che per gran parte della vicenda sceglie una griglia quasi bonelliana, fissa, con otto vignette piene quasi esclusivamente di facce.

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È un Gipi minimale, che si trattiene dal “disegnare male” ma asciuga tanto, non concede mai nulla allo spettacolo, all’esibizione tecnica, al colore. Lavora di fino per catturare le espressioni dei personaggi, per trovare la massima espressività con il minor numero possibile di tratti. A queste sequenze si alternano pagine più libere, muri di testo o estratti di una sceneggiatura che sta scrivendo il protagonista. Con i continui cambi di registro e di forma, è come se l’autore schioccasse le dita a un centimetro dall’orecchio del lettore, impedendogli quasi di entrare nel libro.

Nel provare a raccontare la cancel culture con sguardo personale, Stacy si fa esperimento stilistico, meno immediato, sicuramente meno conquistafolle di altre sue opere, anzi, con dentro micce pronte ad accendere altri fuochi. Ma è anche questo che ci si aspetta da autori come Gipi: esplorare, incendiare, andare più in là.

Stacy
di Gipi
Coconino Press, ottobre 2023
cartonato, 264 pp., b/n
23,00 € (acquista online)

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