
Se le carriere fossero diagrammi di Venn, Dario Bressanini starebbe in quella strettissima fettuccia dove si intersecano professore, chimico ricercatore, saggista, divulgatore, tiktoker e ora anche autore di fumetti. Uno dei più noti divulgatori scientifici italiani, oltre a insegnare all’Università dell’Insubria a Varese, Bressanini è autore di saggi sull’alimentazione dall’impostazione rigorosa ma chiara e diretta (Pane e bugie, La scienza delle pulizie, Fa bene o fa male?), per non parlare delle ricette “scientifiche” (che racconta dai primi anni Duemila), e ha attraversato varie generazioni di social, dai blog a Facebook fino a TikTok, riuscendo a restare sempre contemporaneo e rilevante.
A differenza dei divulgatori tradizionali, che si muovevano tra televisione e editoria a buon mercato, si è costruito una carriera multiforme il cui tassello più recente è rappresentato da Doctor Newtron. La scienza nel fumetto (Feltrinelli Comics), un testo in parte fumetto – disegnato da una manciata di autori capeggiati da Luca Bertelè – e in parte saggio in cui, attraverso il supereroe fittizio Doctor Newtron, Bressanini racconta come i comic book supereroistici abbiano rappresentato la scienza dal Novecento a oggi.
In occasione di Lucca Comics & Games 2023 – dove ha presentato il libro presso lo stand di Feltrinelli Comics – abbiamo quindi intervistato Dario Bressanini per farci raccontare questa sua nuova avventura.

Non so se sia una citazione, ma il nome civile di Doctor Newtron è Tom Taylor, che è anche il nome di uno sceneggiatore abbastanza noto negli Stati Uniti.
Ma va? No, non lo sapevo, è stato un caso. In realtà, quando Tito Faraci mi ha detto che dovevo inventarmi un nome, ovviamente nome e cognome dovevano iniziare con la stessa lettera. Pensavo a dei nomi corti che non fossero simili a quelli già esistenti, da Peter Parker in giù. Poi nelle origini si capisce che non è nome originale e richiama un altro nome che non dico mai nel fumetto. È un easter egg.
Invece il nome da supereroe del personaggio è nato da una necessità pratica, doveva essere “doctor” o “professor”. Avevo scelto “Doctor Proton” e “Professor Newton”, ma già esistevano, così come “Doctor Newton”. Poi una sera stavamo facendo una riunione a Milano – che in realtà era una cena – e ci è venuta l’idea di aggiungere una “r” a “Newton”, anche a richiamare il neutrone.
Questo Doctor Newtron è un po’ la tua versione de Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay di Michael Chabon, con la finta storia editoriale che prosegue anche nella parte saggistica.
È nato tutto da una conferenza sul rapporto tra fumetti e scienza fatta qui a Lucca l’anno scorso. A un certo punto Tito Faraci [direttore editoriale di Feltrinelli Comics, Ndr] mi ha proposto di scrivere qualcosa che fosse sia saggio che fumetto. Da subito si è presentato il problema pratico di non poter far vedere i personaggi di cui parlavo, perché erano protetti da copyright, e chiedere tutte quelle autorizzazioni era proibitivo.
E allora l’idea di Tito è stata quella di inventarsi un personaggio, visto che, come dicevo io nella conferenza, non c’è mai stato un supereroe scienziato nella Golden Age. Kavalier e Clay, che non conoscevo, l’ho anche letto, ma lì è una cosa diversa, perché è incentrato sugli autori più che sui personaggi. Però mi sono divertito un sacco a inventare la storia editoriale, con questo gioco per appassionati di indovinare i riferimenti.
E poi anche dell’Escapista, il personaggio inventato in Kavalier e Clay, hanno fatto dei veri fumetti.
Sì, è scavallato nella realtà. Però non credo faranno mai una serie tv del Doctor Newtron. [ride]
Sui social hai raccontato che per imparare a scrivere una sceneggiatura hai frequentato dei corsi e letto molti manuali.
Non ho fatto niente di diverso da quello che faccio normalmente quando faccio ricerca. Mi sono messo a studiare. Non dico di averli letti tutti, ma mi sono documentato leggendo saggi e manuali di scrittura sul fumetto. Ho fatto anche un paio di corsi, sì.
Ma c’è stato un momento in cui, passando dalla teoria alla pratica, ti sei sentito a tuo agio in quello che stavi facendo?
No, è stato terrorizzante. Tanto è vero che quando Tito mi ha telefonato proponendomi l’idea non pensavo assolutamente che avrei dovuto sceneggiare. Su suo suggerimento, sono partito dalla terza storia, con i mostri, che era la più semplice da sceneggiare. Poi siccome non ero sicuro di quello che stavo facendo e volevo che il disegnatore capisse cosa avevo in mente, per ogni tavola disegnavo dei bozzetti.
Anche grazie alle rassicurazioni di Tito, pian piano ho preso un po’ più di fiducia e infatti nell’ultima storia non ho fatto i bozzetti. Ma tutt’ora non mi sento sicuro e mi fa impressione essere da questa parte del tavolo. Non credo di poter chiamare Garth Ennis collega, ecco. [ride]

L’ultima avventura, in cui racconti, attraverso il protagonista, la storia del tuo tumore all’occhio, è particolarmente riuscita. Verrebbe quasi voglia di leggere un fumetto solo su quel racconto.
Mentre ci lavoravamo Luca Bertelè disse proprio che sarebbe stato bello ampliare quella storia e fare un graphic novel a parte, ma sarebbe diventata un’altra faccenda. È una storia diversa dalle altre, per ovvie ragioni. Io avevo l’ordine di scrivere storie brevi, tra le 8 e 12 tavole, però quando sono arrivato all’ultima non ce l’ho fatta a raccontare tutta la vicenda in 10 pagine, quindi abbiamo tagliato due storie per fare spazio a questa.
Ti eri già aperto con il pubblico in un video in cui raccontavi del tuo tumore. Ricostruire la vicenda, questa volta a fumetti (su suggerimento dello stesso Faraci), è stata un’esperienza diversa?
Sì, anche perché nel fumetto ho aggiunto tutto quello che è successo dopo la pubblicazione del video. Tra l’altro, riguardando il filmato, ho vissuto un’esperienza completamente diversa, perché mi sono visto da fuori. Nonostante molti mi abbiano detto di essersi commossi, io mi rivedo asettico, senza quella parte emotiva e d’ansia che avevo dentro e che non ho esternato. Per questo nel fumetto ci ho tenuto a raccontare anche l’evoluzione emotiva che ho attraversato. Dunque per me è stato come raccontarlo per la prima volta.
Come dici tu, è stato Tito a insistere, e spero che sia utile ad altre persone, come è capitato con il video: dopo averlo visto, tre o quattro persone si sono riconosciute nei sintomi e sono andate a fare la visita, scoprendo di avere la stessa cosa.
Nei fumetti di supereroi il rapporto tra scienza e fumetto è cambiato molto negli ultimi anni. Io ora non so se, da lettore, segui ancora da vicino quel genere…
Molto meno rispetto a una volta. Siccome non vivo più in una grande città e non ho fumetterie o edicole vicine a me, ogni tanto mi compro le raccolte nei volumazzi, ma in edicola non compro più niente, e questo va anche bene: io ho più di 10.000 fumetti a casa, soprattutto di supereroi, poi faccio anche il collezionista, quindi sono andato a prendermi albi di quando non ero ancora nato, e riguardando certi scaffali penso «mah, questa roba non la ricomprerei».
Dunque ora posso permettermi di fare una cernita e ovviamente in questo mi sono utilissime bussole come Fumettologica, perché riesco a recuperare cicli interessanti che mi ero perso o non conoscevo. Ma anche i miei follower ogni tanto mi segnalano delle opere: un mio seguace tempo fa mi consigliò Invincible, mi piacque e finii per comprarmi tutta la serie – e infatti l’ultima storia del Doctor Newtron è disegnata nello stile di Invincible. Però, scusa, tu stavi dicendo un’altra cosa…
Sì, mi chiedevo se il fumetto moderno non abbia sostituito la scienza con la magia, come motore delle origini dei supereroi, perché, almeno nella percezione comune, la scienza e le tecnologie sono diventate molto meno misteriose (penso al ragno di Spider-Man che da radioattivo è diventato totemico, o alla Porta Verde di Hulk).
Secondo me, una delle ragioni per questi cambiamenti sta nell’esigenza narrativa di aggiornare dinamiche che, presentate oggi, farebbero ridere, come le radiazioni. Nessuno prende più il potere dalle radiazioni. La svolta più importante, in questo senso, è avvenuta negli anni Novanta, con l’avvento delle biotecnologie.
E infatti se pensi alle versioni cinematografiche di Spider-Man e Hulk, o a qualche riscrittura fumettistica come Ultimate Spider-Man, gli eroi prendono i poteri da eventi che coinvolgono le biotecnologie. Però io credo che la tendenza a far entrare il misticismo o la spiritualità nelle storie ci sia sempre stata, sulla spinta del desiderio degli autori di raccontare una cosa che stupisca i lettori.
Le biotecnologie sono state l’ultima grande novità della scienza che è tracimata nella società. Negli ultimi dieci anni non c’è stato nulla nel campo scientifico che sia stato così culturalmente dirompente da essere entrato nel discorso comune. Adesso che tutti stanno parlando di intelligenze artificiali, forse quello potrebbe diventare spunto per delle storie.
Abbiamo la percezione di “aver già scoperto tutto”.
Sì, lo dicevano anche nell’Ottocento e poi è arrivata la meccanica quantistica! Diamo per assodate un sacco di cose che decenni fa non erano per niente scontate. Per esempio, nelle prime storie di Iron Man spiegavano in dettaglio come funzionava il laser, perché era una cosa nuova per l’epoca. E forse pensiamo che ci sia meno scienza nei fumetti perché la scienza è diventata normalità, è pervasiva e diffusa.
Aggiungo un dato, riguardo alla contrapposizione tra scienza e magia: non ci avevo mai fatto caso ma, per scrivere il libro, mi sono letto moltissime storie della Golden Age di Batman, Superman e altri, e mi sono accorto che nella stragrande maggioranza delle volte questi eroi non combattevano super antagonisti ma semplici ladri, politici corrotti o criminali. La dimensione scientifica non c’era. E infatti per questo è stato possibile giocare con l’espediente del Doctor Newtron.

Per te sceneggiare è stata una sfida nuova. Ma quando hai iniziato a scrivere i tuoi testi scientifici e di divulgazione, come ti sei approcciato alla scrittura?
Ho fatto, e faccio ancora, una fatica enorme a scrivere. Se per “bravo scrittore” intendi quello che si mette lì, scrive in modo fluente con dei periodi che ti fanno pensare «che bella scrittura», io non sono un bravo scrittore. La mia non è una “bella scrittura”, è una scrittura asciutta, che però secondo me è stata anche uno dei segreti dietro al successo dei miei libri.
Un sacco di persone mi hanno scritto «è il primo libro che compro da quando ho smesso di andare a scuola, avevo paura di non capire», perché i libri hanno sempre quest’aura di oggetto che intimorisce, «e invece è come quando parli sui social». Il punto è che la mia è una scrittura molto semplice, vicina al parlato, ma proprio perché scrivo come parlo, quando devo scrivere qualcosa di strutturato faccio una bella fatica a mettere in ordine il discorso. Non a caso pubblico un libro ogni due anni. [ride]
Certo, ma i tuoi libri prevedono anche molta ricerca (e non fai solo quello di lavoro).
Sì, ma prendi Marco Malvaldi, che fa il chimico ma anche il romanziere ed è molto prolifico. Se vogliamo, per la sceneggiatura, che è un testo funzionale, paradossalmente è stato un po’ più semplice.
E invece la creatività dell’inventare le vicende supereroistiche è stata più facile o difficile rispetto allo sforzo sempre creativo, ma di segno diverso, che adoperi nelle tue ricerche o nei saggi?
Quell’aspetto lì, devo dire, è stato più facile. Il mio timore era: d’accordo, ho fatto il corso, ho imparato le regole tecniche della sceneggiature… e adesso? Così ho usato un approccio sistematico. Mi sono messo lì e mi sono fatto un elenco prima di situazioni dove potevano essere ambientate le storie (un po’ mi ha guidato lo schema che mi ero imposto e quindi seguire ciò che andava di moda nei vari periodi: horror, storie di mostri, alieni, fantascienza, storie con risvolto sociale negli anni Settanta).
Facendo prima questo suddivisione – che mi rendo conto non essere molto creativa – avevo già ristretto il campo e non sono dovuto partito da zero. Il fatto di circoscrivere queste storie mi ha aiutato molto. E poi, come mi ha consigliato Tito, ho pensato alle varie storie come capitoli di una storia unica, con elementi che ritornano, e anche questo mi è stato d’aiuto.
Però comunque un salto di creatività, per niente scontato, l’hai fatto.
È vero, ma il mio schema mentale è stato lo stesso che uso nelle mie altre attività. In questo caso avevo strutture narrative su cui appoggiarmi: l’eroe fa un primo tentativo, impara dai suoi errori, supera l’ostacolo. Una volta che avevo questo scheletro, potevo rimpolparlo in sceneggiatura.
Questo lavoro metodico mi ha aiutato a non dovermi confrontare con la pagina bianca e a non farmi intimorire dalla necessità di doverla riempire da zero. Tutti i libri di sceneggiatura che mi sono letto mi sono serviti anche a quello, imparare artifici narrativi consolidati.

C’è una bella similitudine di Guillermo del Toro che una volta ha detto che per lui sceneggiare è come vedere una città, e quindi se vai a Roma vai al Colosseo, alla fontana di Trevi e così via, ma devi anche esplorare stradine sconosciute, per vivere un’esperienza vera.
È verissimo. Io fissavo dei punti, ma la strada per andare dal punto A al punto B me la inventavo. La storia degli anni Novanta ha per esempio uno snodo importante a cui non sapevo come arrivare e l’idea mi è venuta una mattina, mentre mi facevo la barba. Quindi, sì, certi luoghi non puoi non visitarli, ma la strada per arrivarci puoi deciderla tu. In effetti è una buona analogia.
Questo fumetto come si inserisce nel tuo percorso professionale? È uno sfizio che ti sei tolto, un tassello isolato della tua carriera, una strada che potresti intraprendere ancora in futuro?
Questo fumetto l’ho iniziato perché sono un appassionato e, come racconto nel libro, il mio primo articolo di divulgazione, su Le Scienze nel 2003, verteva su scienza e fumetto e raccontava la storia, famosa (almeno tra i chimici), di Paperino chimico pazzo di Carl Barks. Quindi da questo punto di vista è quasi un ritorno alle origini.
Non lo definirei uno sfizio, perché è il frutto di anni di materiale accumulato, e ci tenevo a farlo. Solo che non sapevo che forma dargli. È una parte di me, che sento mia ma che non era visibile all’esterno, perché per il pubblico sono quello che fa la carbonara scientifica o che svela le bufale sul bicarbonato. Ci tenevo a far vedere anche questo mio lato.
Se poi proseguirà dipenderà, banalmente, dal successo che avrà. Di sicuro mi sono divertito e ho imparato cose nuove. E poi adesso che sono dall’altra parte, nel ruolo di autore, ho conosciuto un sacco di fumettisti, il che mi ha molto entusiasmato. Per tornare alla tua domanda: ci sono un sacco di altre cose che uno può raccontare, sempre in quest’ottica.
Unendo scienza e fumetto?
Sì, sempre con un obiettivo di divulgazione. In fondo, il mio è un libro sul fumetto che spiega cose che magari sono poco note o apprezzate anche tra gli appassionati e addetti ai lavori. Se anche queste categorie di lettori dovessero scoprire qualcosa a cui non avevano mai fatto caso, mi riterrei soddisfatto.
Devo dire che la spiegazione che tu dai della (supposta) origine dello stereotipo visivo dello scienziato pazzo è affascinante.
Quella è una mia ipotesi. Fritz Haber è stato un chimico che veniva ritratto sempre così nelle immagini dell’epoca: occhialini, calvo, con il camice bianco. È stato l’unico scienziato di cui si è parlato in maniera negativa dal 1918 in avanti, perché è stato l’inventore della guerra chimica, però poi ha vinto il premio Nobel per la sintesi dell’ammoniaca, che noi ancora usiamo per fare i fertilizzanti. E la sua vittoria fece molto scalpore, se ne parlò sui giornali, molti scienziati boicottarono la cerimonia di premiazione. Mi sembrava una coincidenza troppo forte che negli anni Quaranta, quando questa memoria era ancora viva, tutti i cattivi fossero ritratti così.
Ora che ne hai scritto uno, guardi il fumetto in maniera diversa?
Faccio cose che prima, quando leggevo un fumetto, non facevo. Guardo le vignette con l’occhio di chi ha sceneggiato la tavola, cercando di ricostruire le istruzioni che lo sceneggiatore ha dato al disegnatore. E noto certe costruzioni, certi artifici grafici su cui magari prima non mi soffermavo più di tanto. È come quando vedi quelle immagini della psicologia della Gestalt, la donna giovane e quella anziana: dopo che le hai viste non puoi “non vederle”.
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