
Skin, fumetto scritto da Peter Milligan e disegnato da Brendan McCarthy, con i colori di Carol Swain, è la storia di Martin Atchinson, un giovane skinhead affetto da focomelia, una malformazione fisica che ha impedito alle sue braccia di svilupparsi normalmente. Uscito con fatica in UK nel 1992, dopo diverse peripezie e il rifiuto di vari editori, Skin ha in effetti ancora oggi un sapore malsano, non tanto per via del cattivo gusto di cui è stato spesso tacciato, ma per l’accusa impietosa che lancia a tutti, in primis proprio a noi che lo leggiamo, attirati dai colori della copertina, da quello strano corpo che ci guarda minaccioso.
Un anno dopo, nel 1993, su Dylan Dog, Tiziano Sclavi e Mauro Marcheselli, con i disegni di Andrea Venturi, affrontarono lo stesso tema, l’orrore e la difficoltà di relazionarsi con un essere umano dal corpo deforme, in una delle storie più apprezzate ma anche più reazionarie della serie: Johnny Freak. Uscita originariamente nel numero 81 della testata e continuamente rieditata a furor di popolo (qui c’è l’edizione più recente), sicuramente annoverata nel canone delle migliori storie del personaggio, è una commovente, strappalacrime storia di amicizia che segna un momento decisivo nell’evoluzione della serie: una resa alla narrazione del contemporaneo, alla logica semplificata del talent show.
Siamo distanti dalla problematicità dello Sclavi di Canale 666, Inferni o Memorie dell’invisibile: qui, lo storytelling definisce nettamente i buoni e i cattivi, senza il retrogusto amaro di Skin. Martin e Johnny sono entrambi figli abbandonati e reietti di una società che fatica a riconoscerli. Ma, a parte la comune sfortuna, i due personaggi non potrebbero essere più diversi.
Martin vive nell’Inghilterra degli anni Settanta, quando la cultura delle “Teste Rasate” era ancora fortemente connessa al punk, alle radici più profonde e sfrontate del sottoproletariato industriale urbano, senza connotazioni politiche. La sua malformazione fisica è una malattia sociale, legata al largo uso del talidomide, un farmaco che allora veniva prescritto alle donne incinte per tenere sotto controllo la nausea. Martin è l’effetto collaterale di quel farmaco sbagliato, di una società terrificante che di lì a pochi anni avrebbe prodotto il governo di Margaret Thatcher, la fine dei diritti sociali, la definitiva consacrazione del liberismo sfrenato e del “There is no alternative”.
Però, nel contesto feroce ma solidale degli skinhead, Martin viene accolto e viene riconosciuto. La sua rabbia teppistica e distruttiva è incanalata in una forma collettiva, nelle risse con i gruppi rivali, nello slang razzista e omofobo, nella foga irrispettosa con cui approccia le ragazze che gli piacciono. Persino gli hippie, con i loro modi amorevoli e tranquilli, lo trattano come un fenomeno da baraccone, lo accolgono solo per prenderlo in giro, per vivere tramite lui un’esperienza da raccontare.
Nei confronti di questa violenza travestita da solidarietà, di questo interesse ipocrita e morboso verso il “diverso”, Martin si ribella come uno “skin”: picchiando, scalciando, urlando tutta la rabbia che ha nel suo piccolo corpo incontenibile. Quindi, in preda a una lucidità che supera ogni rancore, che gli leva anche la voglia di piangere, si reca presso gli uffici dell’azienda produttrice del farmaco che lo ha reso ciò che è, e fa la sola cosa che può fare: una strage.

Diverso il carattere e il destino di Johnny Freak: ispirato alla vicenda realmente accaduta di Jamie Witacker, bambino fatto nascere al solo scopo di fornire gli organi necessari a tenere in vita il fratello, Johnny è un ragazzo sordomuto senza gambe né diversi organi interni, tenuto prigioniero da una famiglia senza scrupoli che lo usa appunto come “riserva” per il primogenito prediletto. Dopo un incendio fortuito, il ragazzo riesce a fuggire dalla cantina-prigione in cui è tenuto rinchiuso e incontra fortunosamente il nostro Indagatore dell’incubo, che lo battezza subito Johnny (“Freak” invece è l’epiteto dato dai giornali) e prende a cuore la sua storia dolorosa.
Difficile in effetti non voler bene a questo ragazzo così speciale: al contrario di Martin, che probabilmente avrebbe preso Dylan a calci, Johnny è un adorabile “mostro” dal cuore buono e dal bel volto espressivo, perfetto nella sua diversità, analfabeta ma pieno di talento artistico, in grado di realizzare splendidi disegni sulle pareti della sua stanza e di suonare deliziose melodie con il clarinetto. Un impeccabile esemplare di quei fenomeni da baraccone, di quel modo pietoso e superficiale di osservare le cose del mondo, contro cui il più lucido e sgradevole Martin si ribella con tutto se stesso.
Nella storia paternalistica di Sclavi e Marcheselli si esprime una visione distorta del “freak”, come eroe e salvatore di un’umanità meschina ai limiti del caricaturale: il fratello, che Johnny in punto di morte deciderà di salvare donandogli il cuore, è il classico stereotipo del figlio di papà viziato e violento, che – come se non bastasse – si diverte a passare le serate con gli amici uccidendo i cani e picchiando le vecchiette.
Questa visione manichea e semplicistica dell’umanità vorrebbe insegnare la solidarietà e il rispetto per il “diverso” ma, così facendo, sancisce proprio questa diversità, costruendo stereotipi rovesciati e altrettanto pericolosi: oggetti preconfezionati, trappole emotive da vendere nel mercato dello storytelling. Nella thatcheriana (e ancora valida) assenza di alternative, nell’impossibilità di ottenere una giustizia reale, la strada più semplice è cibarsi di narrazioni consolatorie.
Nel grande talent show del contemporaneo Johnny Freak avrebbe sicuramente vinto; Martin Atchinson invece avrebbe probabilmente spaccato tutto. Come scrivono Milligan e McCarthy a proposito dei problemi di censura avuti in quegli anni da Skin: «Se il racconto si fosse chiamato ad esempio Eton Crop, come il noto taglio di capelli, e avesse riguardato un grazioso e timido ragazzino affetto da focomelia che viene bullizzato a scuola, scrive belle poesie sulla sua tragica condizione e riesce infine a riscattarsi, rinnovando in tal modo la nostra fiducia nell’indomabile natura dello spirito umano, forse non avremmo avuto tanti problemi. Ma al nostro piccolo skinhead non interessa essere grazioso: vuole soltanto far valere il suo diritto di essere un teppista e di infilare le mani nelle mutandine delle ragazze. Il suo mondo skinhead è effettivamente violento, ma questa violenza impallidisce di fronte alla brutalità aziendale della talidomide».
Una brutalità che abbiamo imparato a ingoiare con le consolanti parabole dei Johnny Freak, addolcendo il sapore malsano della nostra cattiva coscienza.
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