
L’altra sera, complice il serbatoio di film di Disney+, ho riguardato John Carter, il film tratto dal primo romanzo della serie John Carter di Marte di Edgar Rice Burroughs. ERB è il creatore di Tarzan, ma in realtà il suo primo personaggio è stato il capitano della cavalleria sudista della Virginia, John Carter, che finisce su Marte, anzi su Barsoom, e scopre civiltà fantasmagoriche, templi perduti, macchine volanti, deserti infuocati, avventure al di là dell’immaginabile, il grande amore e tutto il resto.
Il film è tratto (ma diciamo meglio: fortemente riadattato) da La principessa di Marte, il primo romanzo scritto da Burroughs che apre le danze a una delle saghe più importanti e seminali della storia della fantascienza e del fantasy. A differenza di Tarzan, l’altro grande eroe creato da ERB e diventato universalmente famoso tra fumetti, film e serie tv, John Carter è sempre rimasto un po’ dietro le quinte. Il fratello maggiore che sta sfilato, non spicca nonostante abbia avuto una vita anche letteraria decisamente interessante.
Il personaggio di John Carter nacque nel 1911, il film è del 2012. Nel mezzo, oltre agli undici romanzi canonici (più il dodicesimo adottato e uscito nel 2021, scritto da Geary Gravel: Gods of the Forgotten), ci sono stati fumetti, adattamenti al cinema e in tv, addirittura giochi da tavolo. Tutte cose fantastiche ma sempre meno evidenti di quelle che invece hanno reso immortale il nome di ERB, cioè quelle dedicate a Tarzan. Un successo, quello di Lord Greystoke, cementato, mentre ERB era vivo, da ben 27 film che lo avevano reso milionario nell’America degli anni a cavallo della guerra. ERB morì infatti stroncato da un infarto il 19 marzo del 1950, a quasi 75 anni con una fama che poteva competere con quella di Walt Disney, con due cittadine chiamate in onore di Tarzan e dieci milioni di dollari in banca.
In tutto questo, Marte va in secondo piano, dunque. Eppure Barsoom, il pianeta rosso dove si svolgono le avventure raccontate da ERB, è l’epicentro per un universo letterario alquanto interessante e poco conosciuto, almeno da noi. Un epicentro costruito attorno ad avventure di cappa e di spada, romantiche ed emozionanti: romanzi per ragazzi, ma che ebbero un successo tale da marcare, tra il 1911 e il 1950 con circa 80 titoli, due intere generazioni e avere effetti nel tempo anche dopo.
L’universo letterario di ERB è semplice da un lato ma enorme dall’altro, per la dimensione delle avventure, dei panorami mozzafiato, gli intrighi planetari, gli eserciti sterminati che saccheggiano città meravigliose. Certo, non parliamo di Proust o di Joyce, anzi. L’opera di ERB non è nemmeno Dante o Shakespeare. Tuttavia, è incisa nei neuroni di milioni e milioni di persone.
Anche Tarzan (che finirà addirittura su Marte, anzi Barsoom, seppure in una storia del canone post-ERB) fa parte dello stesso universo, così come la serie di Carson di Venere (cinque romanzi gustosissimi), Pellucidar (un viaggio in sette volumi al centro della Terra), Caspark (tre romanzi ambientati nella classica isola dimenticata da tutti), altri tre ambientati sulla Luna e infine diversi romanzi sparsi che si ricollegano a questo universo. Sommando il tutto con i 26 titoli di Tarzan, l’universo di ERB è composto da circa 60 libri e raccolte di racconti, cioè la gran parte della sua produzione, che oggi stimiamo in circa 80 romanzi e raccolte scritte durante la sua vita.
Ora, qual è il problema? Il film John Carter è stato un flop. Nonostante sia molto bello. Con la regia di Andrew Stanton (quello della Pixar), la sceneggiatura di quest’ultimo assieme a Mark Andrews e Michael Chabon, ambientazioni mozzafiato, effetti avveniristici per l’epoca e le interpretazioni molto godibili di Taylor Kitsch e Lynn Collins, che sono una coppia di amanti interplanetari meravigliosi: John Carter da una parte e la principessa Dejah Thoris dall’altra.
Cos’è andato male? Tutto, a partire dal nome, che ha “tagliato” via la terza parola: John Carter, ma senza Marte. Violando le più elementari regole di marketing. Un flop annunciato dall’insipienza di chi lo doveva promuovere, non per colpa di chi aveva effettivamente fatto il film. Per questo hanno letteralmente scritto dei libri: per spiegare la storiaccia dietro al film, che la Disney praticamente abortì a causa di lotte intestine e di un cambio di dirigenza che aveva creato una spending review piuttosto sanguinosa e un conflitto impossibile da sanare. Quando successe il patatrack il film era a metà: impossibile cancellarne la produzione, dunque. Tuttavia, si poteva sempre castrare. E così fu praticamente buttato fuori senza promozione e senza spinta, in un mercato dove i film li vendi al pubblico prima che questo li vada a vedere solo se hai un marketing bestiale. Serve spendere tantissimo nella produzione, alle volte la metà del budget.
Ora, perché parlare qui del flop di John Carter? È andato male, ok, peccato, succede. Pace. Pensiamo ad altri problemi analoghi che hanno segato serie di romanzi altrettanto interessanti. Beh, no. Invece, qui voglio dire due cose e mezzo. La prima è che per me questo è un fatto personale. A pane e John Carter ci sono cresciuto, è stata una lettura fondamentale (grazie all’edizione Cosmo Oro dell’Editrice Nord) e bisogna ammettere che anche tradotto ERB è un autore “leggero” fenomenale. Insomma, è una questione di principio. Mia ma anche di milioni di altre persone. Tutti boomer, ok, ci sta. Però siamo milioni lo stesso.
La mezza cosa che voglio dire, poi, è che questi casini succedono, e il prodotto diventa una specie di nota a pie’ di pagina della storia dell’intrattenimento. Ma in realtà, lo sappiamo o almeno dovremmo saperlo, ogni grande produzione cinematografica è davvero un viaggio che dura anni per centinaia di persone impegnate a vario titolo nella produzione e nelle fasi pre e post che ormai sono necessarie a “partorire” un film che è costato 300 milioni di dollari (e ne ha incassati circa 280 nelle sale). Ed è una vergogna che queste storie, questo sforzo collettivo, oltre che il prodotto stesso, vadano perse così, ai margini del fandom.
La seconda e ultima cosa è ancora più semplice. Secondo me tra qualche anno (molti meno di quelli che potremo immaginare) il cinema cambierà completamente faccia. Arriveranno i sequel fatti tutti con l’intelligenza artificiale. Gli Indiana Jones sintetici con Harrison Ford ricostruito solo con i bit spalmati sulla struttura fisica di un trentenne. O gli 007 con Sean Connery digitale redivivo. Oppure un bel kolossal di fantascienza come John Carter che, se ci pensate, è fatto probabilmente al 60-70% già di bit (con tutti gli effetti speciali) e non di attori in carne e ossa o di fondali reali. Ecco, basta rimettere dietro alla macchina per scrivere non una AI ma un buon team di sceneggiatori, capaci di lavorare come si è già fatto a suo tempo sul primo episodio, per produrre anche tutti gli altri.
Non è un lavoro da tre giorni: farlo vuol dire fare praticamente un film della Pixar in animazione digitale solo fotorealistica e con i cloni degli attori “veri”. Deepfake, avatar, IA. Chiamatela come volete, ma penso che presto congeleremo nel tempo i nostri beniamini, come già è successo con i finti spot con Tom Hanks o con lo youtuber MrBeast. Basta poco per fare il salto definitivo. E penso che pellicole come John Carter siano i candidati migliori per questo tipo di virata. Perché il tempo passa, gli attori invecchiano, il successo non c’è stato (e non giustifica un reboot o un secondo capitolo con attori in carne e ossa), ma ha comunque lasciato una traccia tale che metterci le mani digitalmente sopra è un colpo molto più “sicuro” che non cercare di inventarsi una nuova storia (che poi da qualche parte uno sceneggiatore deve pur sempre scopiazzarla, no?).
Succederà veramente? Penso di sì. Quando succederà? Non lo so. Nel senso che è probabile che succeda, ma il momento è imprevedibile: non è la tecnologia l’ostacolo quanto la questione dei diritti dell’opera. Ma, dopo lo sventurato buco nell’acqua che ha fatto il film del 2012, c’è da pensare che i diritti di John Carter vengano via con poco, mentre tutto il valore emotivo dell’universo letterario rimane intonso e alquanto stuzzicante.
E insomma, anziché avere autori che fanno finta di scrivere con dietro una intelligenza artificiale, secondo me presto avremo autori veri che scrivono e poi a girare (o a disegnare) ci pensa l’intelligenza artificiale. Attori compresi. Faccio questa specie di mezza profezia, da mettere agli atti e poi vediamo, completamente “di pancia”. Lo faccio perché secondo me, se dovessi trovarmi a prendere una decisione per una ipotetica casa cinematografica su quale film realizzare con attori “digitali” ricreati sinteticamente, John Carter sarebbe un ottimo candidato. Più, che so, di Casablanca, Via col vento o del prossimo Star Wars. Non si può mai dire, intendiamoci. Ma in ogni caso anche questa potrebbe essere una di quelle cose che succedono.
Intanto, nel mio piccolo, suggerirei a qualche bravo editore nostrano di ripubblicare le cose di ERB, che tanto male non fa. O addirittura di pubblicarle proprio. Più della metà dei libri di Tarzan infatti non sono mai stati tradotti, così come la maggior parte degli altri romanzi. Solo la Nord oggi e qualche piccola casa di frontiera. Allora io vi dico: quando John Carter tornerà, non sarebbe meglio avere già i libri pronti? Rimboccatevi le mani e datevi da fare. Forza!
Infine, una postilla: facendo ricerche per questa rubrica, ho trovato anche un’altra cosa che volendo può rientrare nel ragionamento, ma in un altro modo. Il fatto è che negli ultimi tre anni, con l’appoggio della società che gestisce l’eredità (e le property letterarie) di ERB, è stato pensato un rilancio letterario più organico dell’Edgar Rice Burroughs Universe. Quattro libri, che sono già usciti e che mettono in scena un vero e proprio crossover dei vari personaggi, intitolato The Swords of Eternity, e che ovviamente non sono ancora stati tradotti in italiano. Il primo si intitola Carsons of Venus: The Edge of All Worlds e l’ha scritto Matt Betts, il secondo è Tarzan: Battle for Pellucidar di Win Scott Eckert, il terzo è John Carter of Mars: Gods of the Forgotten di Geary Gravel e l’ultimo, Victory Harben: Fires of Halos scritto da Christopher Paul Carey, mette a tema la nuova eroina dell’universo.
Non li conosco, non li ho letti, capisco il motivo per cui scriverli, ma il vero rischio (come era già accaduto per alcuni racconti lunghi lasciati incompleti da ERB e terminati dal figlio) è che lo “stacco” nello stile sia troppo grande e perda completamente la capacità unica di ERB: quella di coniugare una fantasia senza fine con una scrittura epica e molto fluida, un vero magnete per la lettura, che teneva attaccati alla pagina come neanche il nono raggio.
L’unica domanda, visto il relativo anonimato degli autori, è se si tratti in effetti più di una specie di fan-fiction glorificata e benedetta per avidità da ERB Estate (oppure, peggio ancora, un “atto deliberato d’amore” fatto da non professionisti), oppure se è roba davvero buona. Purtroppo gli Alan Dean Foster non crescono sugli alberi, e neanche i Philip José Farmer. Forse si potrebbe “nutrire” una bestia artificiale con tutta la prosa di ERB e lasciare che sia lei a scrivere nuove avventure, in maniera virtualmente (e statisticamente) indistinguibile dall’originale. Chissà.
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Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. La sua newsletter si intitola: Mostly Weekly.
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