Sul “caso” Lucca-Zerocalcare: l’irruzione del fumetto nel dibattito politico

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Particolare dal fumetto di Zerocalcare sulla sua non partecipazione a Lucca Comics & Games 2023 pubblicato da Internazionale

Grande è stata la polemica nella settimana passata sul “caso Zerocalcare”, estesasi ad autori/autrici che lo hanno seguito e a coloro che hanno invece preferito prendere un’altra strada, in merito alla questione: il patrocinio dell’Ambasciata israeliana all’edizione 2023 di Lucca Comics and Games, dopo la barbarie delle azioni di Hamas verso i civili israeliani e la risposta agghiacciante del governo israeliano ai danni della popolazione civile della striscia di Gaza. Poiché questo era il problema: il patrocinio di uno stato che da molto tempo si comporta da oppressore verso una parte della popolazione e che nel farlo, anche qui da decenni, viola impunemente tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite in nome della propria sicurezza. Peraltro senza conseguirla. 

Ma certo il problema non costituiva nell’invitare singoli artisti di quel paese, i fratelli Asaf e Tomer Hanuka, autori del manifesto di LC&G 2023. E poi c’era quello slogan del festival, “Together”, che compare in bella evidenza proprio sul manifesto. “Insieme”, siamo d’accordo. Ma insieme a chi?

Trovo importante che il settore del fumetto si interroghi più in profondità sulla questione, perché ha implicazioni profonde. Sia in relazione alla sua credibilità presso l’opinione pubblica, sia in relazione alla sua libertà nell’esprimersi artisticamente e politicamente. Anche perché la questione artistica, questa volta, è prima di tutto politica.

Tuttavia, per cercare di inquadrare al meglio la risposta a fumetti data venerdì dallo stesso Zerocalcare sul sito di Internazionale, è bene fare una breve panoramica su alcune prese di posizione di personalità pubbliche sulla questione con annesse alcune osservazioni storiche, in un’analisi che, sia chiaro, non impegna altri che il sottoscritto. Se siete in cerca di un articolo del tipo “Il caso Zerocalcare a Lucca: cosa ne pensa il mondo del fumetto?”, vi suggerisco perciò di correre alla seconda e terza parte di questo pezzo per una PARZIALE risposta; sapendo però che occuparsi di fumetto non significa mai ignorare il contesto delle vicende in cui l’arte del fumetto è immersa.

Premessa con (un bel po’ di) contesto storico

La prima osservazione è che i palestinesi sono una popolazione sostanzialmente sempre più segregata. Che la condizione dei palestinesi sia tale lo hanno detto e ridetto in molti in questi anni, come per esempio il vescovo sudafricano Desmond Tutu, Premio Nobel per la pace. Così come l’ex presidente americano Jimmy Carter, altro Nobel per la pace, in un suo saggio del 2006 che trattava molti temi spinosi quanto rimossi dal dibattito pubblico nel suo paese – come per esempio la costruzione del muro che separa israeliani e palestinesi. Già durante la sua presidenza, Carter capovolse la politica USA su Israele che si era venuta affermando nel corso della presidenza del democratico Lyndon Johnson, per poi radicalizzarsi sotto quelle repubblicane di Nixon e Ford con la regia del Segretario di Stato Henry Kissinger. Carter giunse a paragonare il dramma palestinese a quello, quasi senza fine, dei neri d’America, andando in tal modo ben oltre il convinto appoggio che i Democratici, a partire da Truman, avevano dato prima alla nascita e poi all’esistenza dello stato ebraico in Palestina.

Era e rimane, questa, un’affermazione molto forte nel contesto americano, che ha fatto da sfondo a una guerra civile per abolire la schiavitù e che ha visto tra i protagonisti Abraham Lincoln, il presidente abolizionista che la vinse, considerato per questo quasi un secondo padre fondatore. Un ritratto generale della visione di Carter la si trova nel bel documentario a lui dedicato nel 2007 da Jonathan DemmeJimmy Carter Man from Plains e presentato in vari festival, tra cui la 64ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dedicato alla sua attività da ex Presidente e in particolare alla promozione del saggio citato – e, di rimando, alle sue azioni quando era in carica, come il conseguimento degli storici accordi di Camp David tra Israele ed Egitto.

Ma anche il più importante e celebrato regista israeliano, Amos Gitai, ormai quasi un dissidente che vive a Parigi, nei suoi tanti film di fiction e documentari (il suo ultimo cortometraggio, non a caso, è A Letter to a Friend in Gaza), ha affrontato il tema spinoso del crescente confinamento-segregazione dei palestinesi, della progressiva occupazione abusiva dei territori, del loro impoverimento concreto. 

Nel suo documentario West of the Jordan River, che dà la parola agli attivisti sia palestinesi che israeliani oltre alle famiglie delle vittime della violenza, il regista combinava con materiale d’archivio in gran parte sulle figure di Yitzhak Rabin e Bill Clinton un’intervista-dialogo con Gideon Levy, una figura dominante del giornalismo progressista israeliano, colonna del prestigioso quotidiano Haaretz insieme alla collega Amira Hass (questi ultimi, va detto, sono firme fondamentali di Internazionale, il settimanale per il quale solitamente scrivo). Se li cito qui è perché sui media italiani non si trovano facilmente altri giornalisti israeliani così autorevoli e indipendenti come loro. In una recente intervista al sito di pacifismo ebraico Gariwo, anteriore all’attacco terroristico di Hamas, Levy spiegava perché la popolazione palestinese – molto esigua rispetto alla popolazione nera in Sudafrica – viva di fatto in uno stato di apartheid:

«Basta andare a vedere con i propri occhi quello che accade nei Territori occupati. Ci sono villaggi dove gli ebrei godono di ogni diritto e si sono appropriati di tutte le risorse – a cominciare da quella idrica – e accanto a essi ci sono invece realtà palestinesi prive di acqua, di luce, e persone private dei diritti più elementari. Esistono legislazioni differenti per ebrei e non ebrei, tribunali separati e pene diverse a seconda dell’imputato, persino strade diverse per ebrei e palestinesi. Se un giovane ucraino lancia una molotov contro un carro armato russo è considerato un eroe, un combattente per la libertà, mentre se un giovane palestinese attacca un blindato israeliano, nel suo Paese, è visto invece come un terrorista». 

L’aver poi eretto un trumpiano muro divisorio lungo oltre 700 chilometri, ben visibile ad occhio nudo a qualsiasi viaggiatore, ha ulteriormente aggravato il clima, anche perché la grandissima parte dei pozzi d’acqua sono in tal modo sottratti. Sempre Levy, in un articolo pubblicato all’indomani dell’attacco di Hamas, ricorda che «il solo muro sotterraneo è costato tre miliardi di shekel, circa 721 milioni di euro». Ma la verità, rimarca ancora Levy, è che con questo attacco «abbiamo scoperto che anche l’ostacolo più avanzato e costoso del mondo può essere superato con un vecchio bulldozer, se chi lo guida ha una forte motivazione».

Beninteso, Levy non giustifica la recente galleria degli orrori in stile Isis di Hamas, anche perché la questione palestinese pare sempre più in mano al governo fondamentalista di Teheran. Nondimeno, Levy fa ben capire che questa offensiva di Hamas, frutto di un odio folle e cieco, non nasce dal nulla ma dalla disperazione di una popolazione prostrata da lungo tempo. Il tutto acuito dalla consapevolezza che la dirigenza palestinese pare ormai priva di una guida autorevole dalla morte di Yasser Arafat in poi, e da una comunità internazionale pavida oppure complice, a seconda dei casi.

C’è poi anche un problema di qualità dell’informazione, vero soprattutto da noi. L’Onu nei giorni scorsi ha esplicitamente parlato di crimini di guerra da parte di Israele: se sul sito di un quotidiano come Le Monde si è potuto trovare fin da subito la notizia in apertura, in Italia non si può dire altrettanto. Ma prima ancora della terribile risposta del governo israeliano, i bambini della striscia di Gaza non avevano un posto in cui fuggire, come denunciava ancora Levy in un articolo del 2018. Ed è sul New York Times, non su un giornale radical, e firmato da un opinionista di primo piano del giornale, Thomas L. Friedman (peraltro di origini ebraiche), che possiamo leggere quanto segue:

«L’essenza del messaggio di Hamas a Netanyahu e alla sua coalizione di governo di estrema destra, composta da suprematisti ebrei e ultraortodossi, è questa: Non sarete mai a casa vostra qui – non importa quanta parte della nostra terra vi venderanno i nostri fratelli arabi del Golfo. Vi costringeremo a perdere la testa e a fare cose folli a Gaza che costringeranno gli Stati arabi a evitarvi».

Al governo di Israele c’è dunque un’estrema destra con degli ebrei suprematisti. Questo dovrebbe sembrare a chiunque abbia buon senso un grave pericolo per la sicurezza dell’area e del mondo intero, oltre che di Israele stessa. Anche senza considerare i palestinesi (una volta di più).

Per concludere questa lunga premessa, ricordo che la dirigenza politica israeliana, secondo molte fonti giornalistiche del tutto attendibili come il britannico Observer, negli anni ha fatto il possibile per radicalizzare Hamas, operando attentati mirati ai membri della sua fazione moderata. Questa radicalizzazione purtroppo potrebbe non avere mai fine, come ha ricordato ancora di recente Jason Burke del Guardian a proposito dei gruppi jihadisti palestinesi come il Pij, alleati e insieme concorrenti di Hamas. E che l’ex presidente Carter, agli inizi dell’amministrazione Obama, ebbe diversi incontri, peraltro non privi di calore umano, con la dirigenza di Hamas per cercare di capire quali spazi esistevano per avviare una trattativa con loro (Obama riprese, quantomeno per qualche tempo, una pratica di John Kennedy che faceva non poco uso di una sorta di diplomazia parallela a quella ufficiale del Dipartimento di Stato). In altre parole, Hamas, nel primo caso è stato reso più pericoloso da Israele; il secondo esempio dimostra che, almeno alcuni fa, non era poi così pericoloso e si cercava di discutere e trattare con loro.

Perché nella storia recente dell’umanità, non diversamente dai rivoluzionari, i terroristi quando hanno successo assurgono ad eroi nazionali: se Arafat è rimasto in mezzo al guado, è stato invece così in molti frangenti della Storia. Lo è stato per il terrorismo ottocentesco e risorgimentale autore di attentati in Francia contro Napoleone III che proteggeva il Papa, con l’obiettivo di far nascere l’unità italiana; lo è stato per il terrorisimo degli irlandesi, volto a liberarsi dall’oppressione britannica e alla nascita dello stato irlandese (nel Fumetto esiste un meraviglioso racconto breve del Corto Maltese di Hugo Pratt, parte del ciclo delle Celtiche, sulla Pasqua del 1916: Concerto in O‘ minore per arpa e nitroglicerina); lo è stato per il terrorismo degli algerini che reclamavano l’indipendenza dalla Francia nei primi decenni del Secondo dopoguerra; e infine lo è stato per il terrorismo degli stessi ebrei che, per concretizzare la nascita dello stato di Israele, compirono attentati mediante l’organizzazione paramilitare Irgun contro obiettivi arabi e inglesi. 

Naturalmente si potrà discutere all’infinito sulla questione, come hanno fatto e faranno innumerevoli giornalisti ed esperti. Qui si vuole soltanto mettere in evidenza il fatto che la posizione di Zerocalcare e degli altri autori/autrici, compresi coloro che non sono meno critici verso Israele ma ritengono più consone altre modalità di esercizio della critica, trova molte corrispondenze fattuali e autorevoli negli ambiti più diversi.

E se è certamente vero che studiare le questioni è importante, non meno vero è che quando una situazione d’ingiustizia diventa abnorme, chiunque è degno di giudicare e sanzionare. Altrimenti in democrazia non esisterebbe la cosiddetta opinione pubblica. Robert McNamara, brillante segretario alla Difesa con Kennedy e Johnson, agli studenti che protestavano contro la guerra del Vietnam, rispondeva che il governo possedeva informazioni che loro non avevano. Si è poi visto a chi ha dato ragione la Storia.

Il fumetto israeliano, la questione palestinese

E veniamo al fumetto. Partendo dagli autori israeliani, parte in causa della polemica innescatasi a Lucca. Non ci sono, bisogna dirlo, opere di autori di fumetti israeliani paragonabili a quelle di Gitai per severità di lettura. Forse nemmeno in Europa, dove pur troviamo il più che apprezzabile Cronache da Gerusalemme di Guy Delisle. Al contrario, negli Usa troviamo Joe Sacco con i suoi graphic novel, tra cui il capolavoro Gaza 1956, implacabile quanto rigoroso. Ma al fumetto israeliano manca un Joe Sacco, sebbene esista una schiera di autori molto interessanti, in taluni casi di prim’ordine, come i fratelli Hanuka, Batia Kolton, Yirmi Pinkus e soprattutto Rutu Modan, davvero una grandissima autrice.

È importante soffermarsi sul suo ultimo lavoro, Tunnel. L’Arca della discordia (Rizzoli Lizard), magistrale commedia degli equivoci incentrata su una famiglia di archeologi allargata, ma dall’etica non sempre trasparente, dalle molte nevrosi e dai vari non detti famigliari. Modan mette al centro della vicenda proprio il muro divisorio. Ed esattamente al suo centro, ma nel sottosuolo, si troverebbe l’Arca dell’Alleanza. Sotto vi è una misteriosa rete di tunnel, ma un particolare tunnel sotterraneo è stato scavato molto tempo prima dal padre archeologo. L’obiettivo fondamentale è che i palestinesi non s’impossessino dell’Arca. Dall’inizio alla fine scorre una galleria – il termine è davvero appropriato – di personaggi di vario genere, tra cui gli appartenenti ai radicalismi delle due fazioni. È un susseguirsi di maschere da piccolo teatro, un po’ da vaudeville.

Ora che la rete di tunnel di Hamas è tornata di attualità, metterla in termini di commedia – o di teatrino – dell’assurdo può apparire a sua volta risibile come quei personaggi, e forse addirittura irrispettoso. Ma paradossalmente è proprio questo uno degli interessi del libro. In questa sorta di Predatori dell’Arca perduta alla rovescia, statico, sotterraneo, dove si girovaga nel vuoto a vuoto, dove tutto è molto prosaico, male compreso, e nulla è mistico, Modan sembra come dire che se non fosse una gran tragedia (per via del sangue versato, delle grandi sofferenze indotte) sarebbe una gran farsa. E sotto questo aspetto il fumetto raggiunge film israeliani come il geniale Foxtrot – La danza del destino di Samuel Maoz, dove ironia surreale, gusto per il paradosso e humour nero evidenziano al meglio l’assurdo della vita reale nel suo quotidiano.

Non dimentichiamo infatti che quando Modan concepì il suo libro, agiva un’organizzazione terroristica come l’Isis, al quale il libro fa esplicito riferimento poiché quell’organizzazione ha realmente commerciato segretamente beni archeologici con privati e istituzioni internazionali. 

Da un punto di vista stilistico, le influenze, sia visive che narrative, di cui si è spesso detto, della linea chiara del Tintin di Hergé tanto amato da Rutu Modan, hanno ormai prodotto una grande autrice del tutto autonoma. Influenze visive ovviamente, ma anche narrative, poiché in Hergé si coniuga il realismo con l’umorismo e la grande avventura ha sempre un tono intimo: anche quando viene scoperta una tratta degli schiavi tutto ruota intorno a un gruppo di amici-maschere, talvolta magari da salvare come in Tintin e i Picaros

Come ebbe a dire lo stesso Hergé, «i grandi movimenti di folla, il panico collettivo»: quello è l’universo di E. P. Jacobs, l’altro maestro della linea chiara. Tuttavia qui si pensa anche ai sotterranei e ai colori luminosi del Mistero della Grande Piramide, un classico di Jacobs, coniugati però al loro opposto, a elementi di espressionismo anche questi propri a Jacobs, poiché l’arte del creatore di Blake e Mortimer fu proprio quella di compiere l’eresia di coniugare due antinomie: la linea chiara con la lezione espressionista (ne è paradigmatico Il Marchio Giallo). 

Così facendo, il tunnel senza uscita in cui sembrano essere rinchiusi israeliani e palestinesi, Rutu Modan lo muta in un’opera luminosa come l’estate: i colori pastello magnificano la dimensione plastica, il senso dello spazio insieme alla morbidezza del tratto e all’eleganza della composizione. Al tempo stesso, gli sfondi da smeraldo turchese sembrano evocare una dolcezza e una leggerezza foriere di un sentimento di speranza. La narrazione sia intima che corale delinea con precisione caratteri umani tanto locali che universali, riuscendo a effettuare una radiografia della società, ed evidenzia che basterebbe forse poco per far convivere pacificamente le due fazioni. 

Quindi una grande opera. Nondimeno, il rovescio è che il fumetto israeliano non ha ancora espresso una narrazione che trasudi della gravità del dramma palestinese. E tantomeno un’opera “dissidente”, con la sola eccezione costituita da Israël. Palestine entre guerre et paix di Uri Fink, pubblicata in Europa solo in lingua francese, nel 2008; Fumettologica l’ha menzionata nella sintetica guida agli 11 fumetti per capire il conflitto israelo palestinese. Questo sito ha inoltre riportato un’altra voce importante sulla questione: Art Spiegelman. Il celebre autore di Maus, infatti, in un’intervista del 2014 si era espresso con parole di grande durezza nei confronti delle politiche recenti di Israele. 

L’assenza di Zerocalcare come questione politica

Il manifesto di Lucca Comics 2023, con quel suo slogan “Together”, è risuonato un po’ nel vuoto, sfasato. Soprattutto nel contesto italiano. Anche se la scelta fatta dal festival precede la situazione drammatica che si è creata, non sarebbe stato più opportuno che la manifestazione invitasse gli artisti israeliani senza l’ausilio dell’ambasciata, trattandosi di uno dei rari paesi oggetto di campagne di boicottaggio pacifico, allineate alle migliori prassi del diritto internazionale come il movimento BDS (non a caso richiamato, quest’ultimo, da alcuni editori e autori presenti al festival lucchese)?

Indirettamente, le considerazioni sul fumetto israeliano rendono ancor più  evidente e più netta, per contrasto, la posizione di Zerocalcare e di chi lo ha seguito, come Fumettibrutti. Come scritto in apertura, la questione è politica. E anche dettata dall’urgenza di dare un segnale forte, non da “pesce in barile”,  che Zerocalcare ha ben espresso con il suo stile svelto, nervoso, quasi da street artist della rete. E bene ha fatto a riportare integralmente il suo comunicato, perché è tipico che si discuta, soprattutto sui social, avendo letto non quello che realmente è stato detto, ma soltanto estrapolazioni incorniciate (e magari con interpretazioni “altre”).

Fra i tanti rimproveri fatti a Zerocalcare in questi giorni, c’è stato peraltro quello di andare dietro ai centri sociali. Come se l’autore non avesse maturato una visione individuale e fondata. Sebbene sia legittimo sottolineare che fra questi soggetti ci siano talvolta posizioni totalmente o parzialmente errate, va altrettanto detto che, al pari della cosiddetta “sinistra radicale”, non si tratta nemmeno di terribili estremisti. Non lo sono, in particolare, i diversi centri sociali, Ong e associazioni con cui Zerocalcare intrattiene un dialogo e un confronto (talvolta anche serrato) da anni, e che talvolta sono portatori di informazioni preziose su fatti e dinamiche nei contesti geopolitici meno raccontati dai media. Certi opinionisti da divano, invece, con le fonti sul campo – anche in Palestina, anche in Israele – non si confrontano. Con il risultato di riprodurre – persino su grandi quotidiani nazionali – visioni superficiali, più che rappresentare la complessa realtà dei fatti.

Al contempo, esprime la sua parte di verità chi invece opta per una posizione di non isolamento totale degli autori israeliani come hanno fatto Gianluca Costantini o Igort. Quest’ultimo, autore intellettuale e storicamente non militante, in un post su Facebook ha anche espresso il suo fastidio per come erano state riportate sulla stampa alcune sue dichiarazioni che cercavano di contrapporlo artificiosamente a Zerocalcare. Igort giustamente considera che in Israele ci sono autori progressisti e pacifisti che non se la passano affatto bene con l’attuale governo. Fino a poco tempo prima dell’attacco erano continue le manifestazioni di quella parte importante della società che vive come un incubo la deriva in stile Orban. 

Anche se proprio Levy, pur appoggiandole, si era rifiutato di parteciparvi perché a suo dire la questione palestinese veniva tenuta fuori – e qui si ritorna, come in un gioco dell’oca, alla posizione di Zerocalcare. Tuttavia la posizione di Igort porta con sé la saggia consapevolezza di chi vuole evitare che venga isolato proprio chi in patria combatte o comunque critica il governo responsabile di certe politiche.

Olga Lavrenteva, autrice russa vicina ai gruppi di attivisti che ricercano la verità dell’epoca stalinista – gruppi che non hanno vita facile con il regime di Putin – è autrice di uno straordinario memoir sotto forma di graphic novel storico, Survilo. La ragazza di Leningrado, pubblicato in Francia dal prestigioso editore letterario Actes Sud e in Italia da Coconino Press. E forse Igort, al di là dei gusti personali e della sua netta presa di posizione in favore dell’Ucraina, non vorrebbe l’isolamento di autrici e autori russi progressisti e indipendenti.

La realtà è che si è venuta a creare una bella polifonia di prese di posizione, di articolazioni tutte positive di punti di vista in parte o del tutto diversi, in cui la visione di Zerocalcare, che era l’unico che poteva creare una reale eco mediatica prendendo una posizione netta sulla questione, ha permesso al fumetto per la prima volta di alimentare per giorni l’opinione pubblica, nel bene e nel male, come solitamente accade soltanto agli altri mezzi d’espressione. Potremmo descrivere quanto accaduto come una inedita irruzione del fumetto nel dibattito (geo)politico, al punto da coinvolgere persino un leader e ministro dello Stato (Matteo Salvini), grazie al combinato disposto di tre fattori: una situazione politica già calda e in prima pagina, un autore rinomato e bestseller e un evento importante prossimo al suo picco annuale di attenzione mediatica.

Se nelle annate ordinarie i festival di fumetto trovano spazio sui media spesso per motivi extra-fumettistici (esempio: un Tg che racconta Lucca con due minuti incentrati solo su Lillo e la sua mostra di miniature dipinte…), grazie a Zerocalcare questa volta hanno fatto notizia e dibattito le idee e posizioni culturali di fumettisti, da Fumettibrutti a Igort e altri. Questo per dire che Zerocalcare ha gettato una luce sul fumetto come ecosistema anche politico, immerso e attivo nella sfera pubblica: il fumetto come rete di artisti e professionisti dotati di una coscienza civile, non soltanto sintomi di qualche fenomeno editoriale da raccontare con lo snobismo intellettuale tipico delle redazioni giornalistiche ostaggio del passato.

Zerocalcare non ha semplicemente detto «non sono d’accordo, non vengo». Nel breve fumetto per Internazionale – che sarà pubblicato anche sul prossimo numero cartaceo della rivista – ha spiegato le proprie ragioni, mostrando il lavoro di dialogo e confronto dietro a questa scelta. E allora in questo momento va ribadito che anche chi è più artisticamente lontano da Zerocalcare può ritrovarsi a lui vicino. Umanamente e in nome della libertà del mezzo d’espressione. Per scalzare chi cerca di mettere gli uni contro gli altri, o ricerca l’intimidazione. Poiché semmai sono costoro a doversi preoccupare di quel che hanno scritto in passato.

Francesco Boille è un critico di cinema e fumetto e collaboratore della rivista “Internazionale”

Errata corrige. Una versione precedente di questo articolo menzionava per errore la mancata inclusione del graphic novel “Survilo. La ragazza di Leningrado” di Olga Lavrenteva nella selezione Lucca Comics Awards di quest’anno. Il fumetto però, contrariamente a quanto scritto, non era candidabile perché pubblicato prima della finestra temporale presa in considerazione da Lucca Comics & Games. Il regolamento del festival prevede infatti che i fumetti che potevano partecipare ai Lucca Comics Awards 2023 dovevano essere pubblicati nei mesi compresi fra luglio 2022 e maggio 2023, mentre “Survilo” è stato pubblicato da Coconino Press ad aprile 2022.

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