
Come si muove una squadra senza allenatore? Anzi, come si muove una squadra il cui allenatore ha conquistato le imprese più folli e impossibili, plasmando la Storia? Ci sarà qualcuno che prenderà le redini e punterà a nuove conquiste o i giocatori, come una mente alveare, cercheranno di replicare tattiche e strategie del loro leader? Sono tutte domande a cui dovettero rispondere i realizzatori di Robin Hood.
Uscito in America nell’autunno del 1973, Robin Hood, una versione animalesca e comica del fuorilegge inglese che ruba ai ricchi per dare ai poveri, fu il primo film prodotto dallo studio d’animazione Disney senza alcun coinvolgimento del suo fondatore. Walt Disney era infatti morto nel 1966, ma era riuscito a supervisionare i lavori de Il libro della giungla (1967) e a dare il via libera alla produzione de Gli Aristogatti (1970).
La storia di Robin Hood in realtà vide in qualche modo coinvolto Disney, che negli anni Trenta aveva accarezzato l’idea di costruire un film attorno al personaggio di Renart la volpe, protagonista della raccolta di racconti francesi Roman de Renart, ma la natura da mascalzone poco eroico di Renart lo dissuase dall’intraprendere il progetto.
Ken Anderson, art director su Biancaneve e i sette nani e Pinocchio e collaboratore alla costruzione di Disneyland, aveva dimestichezza con molti aspetti di una produzione animata (scrittura, layout, design dei personaggi e scenografie) e per questo spesso gli venivano affidati spunti da sviluppare per vedere se si sarebbero potuti concretizzare in progetti veri e propri. Alla fine degli anni Cinquanta, Anderson pensò di riprendere in mano quell’idea e rielaborarla aggiungendo un altro personaggio dei racconti del Roman de Renart, Chantecler il gallo. L’accoppiata di volpe e gallo non era nuova al ciclo francese ed era apparsa in molti testi, tra cui Il racconto del cappellano delle monache di Geoffrey Chaucer.
Insieme a Marc Davis, altro storico animatore dello studio, Anderson elaborò una proposta in cui Chantecler era l’eroe della storia e Renart l’antagonista (altre fonti riportano che i due stavano invece tentando un adattamento del testo teatrale Chantecler di Edmond Rostand). L’idea fu accolta con grande entusiasmo e fu addirittura annunciata tra i film in produzione dallo stesso Disney.

Alla fine però il progetto fu cancellato, nonostante le proteste degli animatori che avevano già iniziato a lavorare sull’aspetto e l’animazione dell’animale. Disney gli preferì La spada nella roccia anche perché, come disse durante una riunione dell’estate 1960, il problema di rendere un gallo il personaggio principale era che «uno non ha certo voglia di prendere un gallo e mettersi a coccolarlo».
Nel 1968, nel bel mezzo della lavorazione de Gli Aristogatti, ad Anderson fu chiesto di sviluppare una storia ambientata nel passato e questi rispolverò l’idea della volpe, ibridandola con la leggenda di Robin Hood, di fatto risolvendo il problema di incentrare il film su un antieroe, visto che Robin Hood avrebbe commesso le sue malefatte in nome della giustizia sociale. Perfino il gallo trovò un ruolo: il narratore Cantagallo, versione faunistica del menestrello Alan-a-Dale che accompagna Robin Hood nelle versioni tarde della leggenda. Nel disegnare i personaggi pare probabile che Anderson si ispirò a Reynard the Fox, una versione moderna della fiaba di Reynard scritta da Harry J. Owen e illustrata Keith Ward nel 1945.
Come già accadeva da una decina d’anni, a partire da La spada nella roccia e continuando con Il libro della giungla e Gli Aristogatti, Wolfgang “Woolie” Reitherman si occupò di dirigere in solitaria il film. Prima di Reitherman nessuno aveva mai gestito da solo così tante produzioni dello studio. Nella biografia Vita di Walt Disney di Michael Barrier, l’animatore Bob Carlson ipotizzò che dietro questa scelta di Disney, poi proseguita dai suoi successori, ci fosse lo stile senza pretese di Reitherman: «Una volta mi trovavo in una stanza nella quale stava anche Walt, impegnato a discutere una serie di cose, e nel corso della conversazione cominciò a parlare di Woolie. Disse: “ogni volta che voglio sapere cos’è che il pubblico pensa su un film che sto realizzando, chiedo a Woolie, perché in un certo senso è il ragazzo americano per antonomasia.”».
I suoi film, e Robin Hood non fa eccezione, vivono di una semplicità schietta, tanto nelle azioni quanto nella comicità, fisica, veloce e farsesca. Con questo stile, Reitherman finì per segnare un ventennio di animazione Disney.

All’epoca dell’uscita, Robin Hood fu un successo di pubblico, incassando quasi 10 milioni di dollari, la più alta cifra mai raggiunta da un film Disney fino ad allora. Il pubblico, del tempo ma anche quello moderno, non ha faticato a innamorarsi del cartone, complice le tante gag riuscite, il motivetto Urca Urca Tirulero scalfito nella memoria di tutti e la comicità intrinseca dei personaggi: ne è un esempio lampante Lady Cocca, buffissima dama di compagna di Lady Marian che Zerocalcare ripescherà per rappresentare la madre nei suoi fumetti (forse non del tutto conscio, il fumettista ha scelto un film che va di pari passo con le sue opere, sguaiate, molto consapevoli della propria voce narrante e di ciò che raccontano, e con la cifra stilistica di qualcosa che è stato messo assieme con lo spunto un attimo prima della consegna).
La critica non fu altrettanto benevola. Leonard Maltin in The Disney Films commentò che «forse il problema di Robin Hood è nella storia – o nella mancanza della stessa», e Christopher Finch in The Art of Walt Disney scrisse che «questa versione di Robin Hood è priva di potere allegorico e si limita a usare i personaggi per creare scene comiche convenzionali. Non è un brutto film, ma non sfrutta tutto il suo potenziale». Alla fine degli anni Settanta l’animatore Andy Gaskill disse al New York Times che «i nostri film ultimamente sembrano un palco vuoto in cui questi maestri della recitazione si esibiscono, provano, bisticciano tra di loro. Dovremmo avere una cornice molto più convincente per questi grandi personaggi».
Senza una guida forte come Disney che tenesse sempre dritta la barra della storia, gli animatori si smarrirono nel loro lavoro, finendo per perdere di vista tutto il resto. Come lo stesso Anderson scrisse in un articolo per il bollettino del sindacato IATSE nel 1973, «la trama è solo un’aggiunta al prodotto finale. Deve essere una parte di quel prodotto, non il suo scopo».

In effetti Robin Hood è un film con una trama evanescente e che vive di sequenze – funzionerebbe quasi meglio come una micro-serie tv – e di buone prove attoriali da parte degli aimatori. Di Robin Hood si ricorda lo stile visivo derivante dal metodo Xerox (messo a punto proprio da Anderson un decennio prima), con queste scie di particelle che davano al disegno una qualità grezza e friabile, e le tante scene che riutilizzano animazioni tratte da Biancaneve e i sette nani, Il libro della giungla e Gli Aristogatti. Un aspetto spesso criticato dal pubblico, che associava a queste scorciatoie una sciatteria e noncuranza da parte dei realizzatori.
L’animatore Floyd Norman, che lavorò a molti di quei film da giovane, spiegò che quella di riciclare le animazioni era una pratica tutt’altro che economica o che faceva risparmiare tempo, perché andavano comunque ridisegnati i personaggi. «Quello era un vezzo tipico di Woolie» ha detto Norman. «Preferiva utilizzare dei momenti già consolidati che sapeva avrebbero funzionato. Voleva andare sul sicuro.»
Gary Trousdale, co-regista de La bella e la bestia, ha spiegato che in realtà utilizzare vecchie animazioni, ridisegnando i personaggi del film, permette di risparmiare un po’ di tempo: ne La bella e la bestia l’ultima scena, in cui Belle e il principe danzano nella sala del castello, è ricalcata da quella presente ne La bella addormentata nel bosco («avevamo pochi giorni per completare il film, prendemmo quella scena, la ricalibrammo e demmo istruzioni di ridisegnare Aurora come Belle e Filippo come il principe»).

Come già era stato La spada nella roccia, Robin Hood è sgarrupato, leggero e incapace di prendersi sul serio. Ne è un esempio la scena d’apertura: una sequenza girata dal vivo in cui, come nei classici Biancaneve o Pinocchio, vediamo aprirsi un prezioso libro in cui sono raccontate le vicende del film. Solo che, a differenza delle altre pellicole, in Robin Hood il narratore è uno dei personaggi animati, Cantagallo, che esordisce disconoscendo qualsiasi pretesa di fedeltà al testo di partenza: «Sono qui per raccontarvi la storia com’è. O era. O che so io».
Robin Hood è anche uno dei primi esempi mainstream della sottocultura furry fandom, amante dei personaggi animali con spiccate caratteristiche antropomorfe (sia d’aspetto che caratteriali): nei corpi di Robin o Lady Marion ci sono, sotto la pelliccia da volpe, fisionomie e movenze umane, su cui sono montate teste di animali – un design facilmente replicabile da un cosplayer appassionato di furry. Fred Patten, scrittore e saggista che nel 1996 compilò una cronologia delle principali tappe evolutive di questa sottocultura, indicò Robin Hood come una delle prime opere americane per il grande pubblico che ritraeva dei personaggi davvero antropomorfi sotto una luce positiva.
Ci sono insomma tanti piccoli luoghi d’interesse in Robin Hood, film che magari Disney non avrebbe mai approvato ma che di certo ha fatto la sua fortuna, consolidando nel pubblico l’immagine di uno studio d’animazione che sfornava solo classici, per quanto stropicciati.
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