
Non stupisce che David Fincher abbia voluto adattare per il cinema la serie a fumetti francese The Killer: sia il regista che l’opera di Matz e Luc Jacamon condividono intenzioni precise, pulizia formale e uno sguardo al laser sulle cose che raccontano. Peccato solo il risultato di questo incontro sia tutt’altro che memorabile.
La storia racconta di un assassino senza nome (Michael Fassbender) che, dopo un’uccisione su commissione andata storta, si imbarca in una vendetta ai danni del suo stesso committente, responsabile di aver mandato all’ospedale la sua fidanzata come gesto di ritorsione. Nel percorrere questa scalata fino al responsabile delle sue sofferenze, il killer si lascia dietro una scia di sangue e crescono in lui i dubbi sul proprio mestiere.
The Killer è stranamente molto fedele al fumetto. Dico “stranamente” perché di solito quando queste produzioni blasonate prendono un’opera senza un grosso seguito di critica o pubblico la stravolgono. In Francia The Killer è una serie popolare ma nulla di più, è come se arrivassero gli americani a fare un film tratto da una serie Bonelli tipo, non so, Julia: mi aspetterei che la trasformassero in una ventenne amante della musica drill.
Invece, la produzione è molto attenta a rispettare lo stile e il tono di racconto del fumetto: vicende asciutte, pochi dialoghi e tantissimi monologhi interiori da parte del killer che, in qualità di narratore in prima persona, filosofeggia sul proprio ruolo, racconta i propri metodi e la ferrea disciplina necessaria per fare il suo lavoro. È rispettata l’anima del protagonista, un tipo meditabondo, che fa stretching e mangia le sue proteine vivisezionando i panini del McDonald’s. In pratica, un impiegato delle uccisioni a contratto. Soprattutto, rimane intatta l’essenza del fumetto, che è una serie lasca, riflessiva, dove la trama è l’ultima delle preoccupazioni degli autori e dove tutto avviene per scarti e aggiunte, movimenti laterali che lasciano spazio all’introspezione psicologica e ai disegni dell’ottimo Jacamon. Non che sia un valore, rispettare il materiale di partenza, ma se lo fosse, la pellicola farebbe la felicità di molti puristi.
Perché The Killer è esattamente così, un film dove la trama è un pretesto. Importa, più di altre volte, il come, non il cosa (lo dice anche la frase di lancio sul poster: «L’esecuzione è tutto»). Purtroppo è proprio lì che crolla il palco.
La costruzione del personaggio è pessima. A parole, e nei piccoli gesti quotidiani, il killer senza nome è un professionista metodico, imperturbabile e letale. Ma già dopo pochi minuti – passati a rimarcare quanto lui sia ossessivamente attento a ogni dettaglio, in un lavoro che non permette sbavature, mai – lo vediamo muoversi con la goffaggine di un ladro di galline, compiendo uno sbaglio madornale. E non è una minuzia, visto che quell’errore è la miccia che accende la storia. Averlo giustificato con una tale debolezza, a livello narrativo, compromette il film. Da lì in poi, fino a un finale abbastanza scemo, per lo spettatore è difficile riuscire a prenderlo sul serio, nonostante la regia continui a presentarlo come uno che la sa lunghissima e mette i bicchieri sopra le maniglie delle porte per non cadere preda di un’imboscata mentre dorme.
E allora cosa resta? Un po’ come nel fumetto, ma un po’ meno del fumetto (che è ambientato in molte più località), l’estetica è centrale. A quella di Jacamon, The Killer sostituisce quella di Fincher, il cui occhio quasi distaccato, analitico ma voyeuristico, e affezionato a luci fredde, blu e gialle, si adatta bene alla storia di un uomo che sta fuori dalla società, la osserva e ne decreta i destini. È tutto un film di stuoie, fitbit, carte di credito, biglietti aerei e armi, sempre eleganti anche quando sono sparachiodi o pugnali da poco.
Ogni aspetto della pellicola pare trattenuto, dalla recitazione alle musiche, e a una certa questa cifra stilistica diventa sensata, perché rappresenta lo spirito del personaggio, ma lo è al punto da far danno al film, che per esempio si apre con dei titoli di testa affrettati e televisivi – nel senso vetusto, e quindi peggiore, del termine – e poi si nega a qualsiasi virtuosismo. È Steven Soderbergh, ma senza il menefreghismo e lo spirito sardonico che corre sotterraneo ai suoi thriller.
Si arriva alla fine di The Killer in scioltezza, affascinati dalle sue movenze ma confusi per non aver colto il senso della questione, consapevoli di aver assistito a un film che è davvero poca cosa.
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